Seleziona una pagina

Un piccolo favore, un cambio turno sul lavoro, un prestito e tanto altro: quante volte ti è capitato di non riuscire a dire no? Probabilmente per via di un eccessivo senso del dovere, per non rischiare di apparire svogliata/o, per evitare conflitti, per riconoscenza: tutte motivazioni che portano a interrogarci sulla stima che abbiamo di noi stessi.

Solitamente assumiamo atteggiamenti accondiscendenti e ci comportiamo in maniera da gratificare gli altri per sfuggire a un giudizio negativo e per evitare che insorgano emozioni negative come colpa, vergogna, paura. Sopravvalutiamo le conseguenze negative di una presa di posizione e di un rifiuto, per paura di perdere la stima o l’approvazione (o addirittura l’affetto) dell’altro, di ferire o essere feriti, di essere rifiutati, ridicolizzati, giudicati egoisti e via dicendo. I timori inibiscono al punto che evitiamo di esporci e manifestare le nostre idee, accettando incondizionatamente il parere degli altri. Questi comportamenti passivi possono essere ricondotti alla bassa stima che spesso abbiamo di noi stessi e dalla forte influenza che ha l’approvazione degli altri, che ci rende vulnerabili e facilmente influenzabili.
Accettare il punto di vista degli altri incondizionatamente evita poi che ognuno di noi si assuma la responsabilità delle conseguenze negative che un’azione o una scelta potrebbero avere, ma al contempo alimenta la frustrazione per non aver tenuto debitamente in considerazione i nostri desideri, le nostre idee, i nostri bisogni e valori.
Corriamo così il rischio di bloccare le nostre azioni e di non esprimerci più in maniera autentica per via dei pensieri di natura negativa che avremo su noi stessi: “Gli altri sono migliori di me. Se lo contraddico penserà che sia un maleducato. Non sono capace” e così via. Questi pensieri negativi intaccheranno la nostra autostima, indebolendoci dal punto di vista emotivo e relazione.
Secondo recenti ricerche, inoltre, nel caso in cui riuscissimo a dire il primo no saremmo più propensi a dire sì alle richieste successive per recuperare al presunto torto e non creare ulteriori disagi.

Facciamo un passo indietro: tra i due e i quattro anni i bambini iniziano a ripetere, in maniera esasperante, una serie di no alle richieste dei genitori. In questa fase fondamentale i bambini usano la parola no per delimitare i propri confini relazionali ed è una svolta importantissima nel processo di sviluppo psichico del singolo perché sancisce la consapevolezza della distinzione tra sé e gli altri. Non a caso, questa è la stessa fase in cui i bambini iniziano a usare il pronome io.
In ottica relazionale, dire no per il bambino significa “sono diverso da te, posso avere pensieri e volontà diverse da te e voglio decidere per me”. L’indagine sulla negazione può essere linguistica, antropologica e neurofisiologica. Nell’ultimo caso, il punto di partenza sono i neuroni a specchio che sono responsabili del co-sentire automatico e irriflesso noto come simulazione incarnata. La socialità di base viene attivata dai neuroni a specchio a lacerata dalla negazione linguistica. Eppure il linguaggio costituisce anche “l’antidoto a questa sbrecciatura e, anzi, tutte le relazioni sociali non sono altro che una laboriosa e conflittuale tessitura continua per ricucire lo strappo d’origine” (Virno, Forme di vita, 2004).

Come assecondare allora questa tessitura e imparare a dire no?
È fondamentale innanzitutto modificare quel dialogo interiore che ci blocca nelle nostre relazioni sociali. Quando stiamo per dire sì ma in realtà vorremmo dire no, potremo ripetere a noi stessi che:

  1. Le nostre opinioni esprimono i nostri bisogni e ci mettono al riparo da frustrazioni a lungo termine;
  2. Dire sì e pensare no significa fare un torto a noi stessi e intrappolarci in situazioni scomode;
  3. Il giudizio degli altri è un’opinione, nulla di più;
  4. Siamo responsabili di come ci trattano gli altri;
  5. Possiamo cercare un accordo e dire dei no in maniera assertiva.